Vita da Zen
Di Marco Del Freo
Versione integrale dell'articolo pubblicato su "Panorama" il 23 Giugno 2000
Dalla sveglia alle 4 del mattino alle abluzioni, alla scarna colazione.
Dalla funzione-meditazione all'attività nell'orto, nei laboratori, nelle
cucine. Abbiamo sperimentato la vita da monaco orientale e scoperto che
nel silenzio e nella solitudine non si sfugge al fascino di se stessi.
È uno scampanellio gentile quello che ti risveglia. Il tatami su cui hai
dormito è tiepido del tuo corpo, ma non invita a restare. Una coperta
portata da casa, uno zainetto sotto il capo. Nella luce leggera che entra
dal vetro della porta, la stanza è vuota esattamente come ieri sera alle 9,
quando le luci si sono spente. Sono le quattro meno cinque del mattino e
non è l'orologio a dirlo, ma lo scampanellio ormai quasi scomparso nel
ventre della casa colonica trasformata in monastero, a due passi da
Salsomaggiore, Parma. Lo scampanellio ritorna, la mano della monaca entra
ad accendere la luce, non c'è tempo per restare a pensare, sdraiati. La
giornata, nel tempio Zen Soto Shobozan Fudenji è cominciata. Coperta e
zainetto devono scomparire nell?enorme armadio a muro. Ogni cosa rimanga
come prima della nostra presenza. Forse potrei già andare via se ho capito
questo. E invece calzo un paio di scomode ciabatte e mi dirigo
silenziosamente ai bagni. Ci sono dovuto andare nella notte, è stato molto
più bello. Buio totale, il percorso memorizzato nel tardo pomeriggio di ieri, quando sono
arrivato. Dopo cena alle sei e mezzo, come in ospedale, come in carcere
forse. Senza una luce, con il timore di disturbare qualcuno, a causa della
mia indisciplinata vescica, un piccolo passo dopo l'altro, per il
corridoio, per gli scalini accanto alla rastrelliera degli Zafu, oltre la
porta schermata del Gai-tan, lungo la stanza che contiene gli effetti
personali che ciascuno lascia entrando a Fudenji, ancora giù per la stretta
scala che conduce alla porta scorrevole aperta sull'atrio dei servizi.
Ecco le pantofole in plastica che si devono indossare per entrare: di
fronte, la sala per le abluzioni, con i rubinetti, le vasche in marmo, le
bacinelle azzurre.
Gli occhi della mente sono ben aperti, anche quando non c'è luce.
Tutta scuola, come inchinarsi brevemente di fronte al Ususama-Myoo, il
Buddha che so essere sospeso in alto, sulla colonna a fianco dei servizi
igienici. I palmi delle mani perfettamente sovrapposti, i gomiti alti, le
ginocchia che si flettono appena, mentre la schiena resta diritta
piegandosi sopra il bacino. «Gassho» si chiama, segno di ringraziamento, di
scuse, di attenzione. Quando ci si incontra, camminando nei corridoi,
offrendosi sempre il fianco destro, così ci si saluta. Così, agnostico
dalla vescica debole, saluto il Buddha, al buio, incredulo di quel che
faccio, d'istinto. Ma questo era ieri sera. Stamani è un attimo, prima di
tornare silenzioso, attento ai gesti per salire sul Tan. Il Tan appoggiato
a una parete bianca del Gai-tan, il luogo destinato alla meditazione degli
ospiti, è un lungo, basso tavolo in legno nel quale sono incastonati dei
tatami. Il Tan è la base sulla quale si pratica lo Zazen. Il Tan è il luogo
in cui si diventa Buddha. Per diventare Buddha ci si inchina in Gassho
allo Zafu poggiato sul tatami. Lo Zafu è un nero cuscino circolare sul cui fianco
spicca un'etichetta bianca su cui sono impressi ideogrammi giapponesi. Per
diventare Buddha si gira lo Zafu finché l'etichetta è rivolta alla parete,
poi ci si gira verso il centro della stanza, si fa Gassho, ci si sfila le
pantofole e ci si siede sullo Zafu, poggiandovi sopra il sesso, se si è
donne, la zona dietro lo scroto, se si è uomini. Poi si tirano su le gambe
attenti a non toccare con i piedi l'ampio bordo di legno lucido su cui, più
tardi, sarà servito il pranzo formale. Adesso per diventare Buddha si
incrociano le gambe, poggiando il piede sinistro sulla coscia destra e poi
quello destro sulla coscia sinistra. Poi ci si gira verso il muro, facendo
ruotare lo zafu in modo che l'etichetta torni ad essere leggibile dal
centro della stanza. Le ginocchia toccano il tatami. Si raddrizza la
schiena, facendo in modo che l'ano guardi il sole e che la nuca sia appesa al cielo. Si poggia il bordo della mano destra al ventre, poco sopra i genitali, le dita unite ad accogliere quelle della mano sinistra i pollici,
sollevati come un ponte che unisca i due avambracci, si sfiorano alle
punte con la forza necessaria a sostenere un foglio di carta senza
stropicciarlo. Per diventare il Buddha gli occhi restano aperti, lo sguardo
puntato oltre il muro che ti fronteggia, con una targhetta in legno nero
sulla quale è scritto il nome in giapponese di un monaco.
Adesso, alle quattro e dieci del mattino e per la prossima ora e mezza di
immobilità, io sono il Buddha. Io sono un agnostico, probabilmente ateo: io
non so se sono stato il Buddha in quell'ora e mezzo come in quelle che
sono seguite nei giorni passati a Fudenji. Non so se, come i monaci Soto
affermano, la stessa postura dello Zazen sia il satori, l'illuminazione,
ammesso che esista. Non so se sia una strada per raggiungerla, come
affermano invece gli Zen della scuola Rinzai. Non so se i mille pensieri
che si opponevano alla mia volontà di mantenere la postura mi abbiano
trasformato in Buddha. Non so che cosa significassero i Sutra che ho
pronunciato, nella sala del Dharma addobbata di giallo, di rosso, di verde
alle sei di queste mattine dannatamente padane, nella loro nebbia testarda.
Non so che cosa mi abbia spinto a prostrarmi tre volte di fronte al Buddha
del presente e a quelli del passato e del futuro, nascosti da un velo
leggero sull'altare al centro della sala. So che l'ho fatto. So che sono
stato
bene. So che ho vissuto serenamente la mia solitudine tra monaci Zen così
distanti dalle moltitudini buddhiste che sembrano bussare alle porte della
nostra società spinte dalla grande onda della New Age.
Nel monastero fondato e costruito anche fisicamente dal maestro Taiten
tutto riporta a un ordine primigenio, a qualcosa che viene prima di tutte
le religioni di tutte le mode e per questo può accoglierle tutte. Il
maestro Taiten ne è un esempio, col suo italianissimo chiamarsi
originariamente Fausto Guareschi (un cognome che è da solo un programma),
con il suo intercalare motti emiliani al giapponese e al cinese, con il suo
passare mai casuale dal sorriso più dolce alle invettive più feroci.
Quando ,mi ha chiesto, di fronte a monaci e ospiti, perché ero lì, mi è
venuto da rispondere «per imparare la forza di pensare a se stessi».
Nient'altro, a lui che serenamente raccontava di come fosse importante
quella statuetta del Buddha che, proprio per quel motivo, avrebbe potuto
bruciare in ogni momento. La regola, la forma come omaggio alla loro
impermanenza e alla nostra. Niente è lasciato al caso. Lo shingi, la
regola, prevede ogni comportamento nel monastero. Il pasto formale, per
esempio, è un capolavoro che si ripete ogni mattina. Le scodelle che
vengono allineate sul legno su cui il monaco ha poggiato dormendo la testa,
rivolta al centro della sala, dove sta il Bodhisattva Shoso Manjusri, al
quale viene offerta ritualmente la prima porzione di cibo. Il modo in cui
si dice a chi ti serve «basta», battendo leggermente l'indice destro sulla
scodella. Il modo in cui si mangia il riso stracotto e le verdure bollite,
i gomiti all'altezza delle spalle in una posizione incredibilmente comoda.
Il modo in cui ogni movimento evita istintivamente il rumore. Il modo in
cui si pulisce la serie di 5 scodelle col tè caldo, facendolo passare dalla
più
grande alla più piccola perché niente del cibo venga gettato. Alla fine
del pasto, nessuna traccia. L'acqua che viene offerta per l'ultima pulizia
viene raccolta e offerta alle piante del giardino. Nella naturale assenza di
parole mattutine i suoni dei tamburi, dei legni e dei ferri riempiono di
messaggi il perimetro del tempio. La campanella della sveglia, il tamburo
del Gai-tan, il legno della sala del Dharma, il ferro della cucina che
batte ogni 30 secondi fino all'ora del pasto?...
Bisognerebbe essere dei sassi per sfuggire al fascino di se stessi, immersi
in questa comunità.
Qui è il luogo in cui l'immensa solitudine di ciascuno diventa il dono che
ci unisce a tutte le cose. L'assurda presunzione di esistere diviene il
mezzo per essere parte del tutto. Ma queste sono solo parole. Che, come
dice taiten ingannano. Bisogna praticare per capire, no, per essere.
Difficile scriverne, per esempio. Difficile dare l'idea di come sembri
impossibile, sia pure da estranei, un modo diverso di muoversi da quello
silenzioso usato da tutti loro, le mani in Sasshu, la sinistra con il
pollice stretto tra le dita, racchiusa dalla destra che la avvolge tutta, i
gomiti alti.
Come sottrarsi alla necessità di pulire tutto, proprio tutto, dalle scale
al tempio, ogni mattina?
Come resistere alla tentazione di ripulire dalle erbacce una porzione del
giardino di ghiaia?
E poi i giochi, gli esercizi, le parole, la cucina, il lavoro nell'orto o
nel laboratorio. L'attenzione ad ogni attimo della vita come se fosse
l'ultimo. Lontani dal mondo? Niente di tutto questo. Fausto è un monaco
guerriero, come chi gli sta vicino. Conferenze, scuole, sport, politica,
televisioni, giornali. Da lui vanno gli amministratori comunali per
chiedere consigli su che cosa bisogna inserire nel prossimo piano di
sviluppo d'area e rimangono stupiti nel sentirsi rispondere: «Una moschea».
Da lui viene in visita il presidente del Tibet. Lui manda ogni anno
qualcuno in Giappone, negli antichi monasteri, per approfondire, negli Ango
estivi, lo studio dei Maestri e della tradizione. L'impegno con se stessi
diviene impegno con gli altri, per sé. Un inevitabile ruolo che non ama,
quello del Maestro, discendente diretto del Buddha attraverso il suo
referente spirituale Deshimaru e attuale Narita: lui sa che il compito del
Maestro è preparare gli altri ad abbandonarlo.
Ma non è facile andarsene da qui, si tratti di autosuggestione o di
sindrome di Stoccolma, non è facile. Qualcosa di reale accade in Zazen,
qualcosa di fisico. Qualcosa che sai ti mancherà, qualsiasi cosa sia.
L'ultima mattina al tempio, accettato nel Sodo dove di solito praticano
solo i monaci. Per più di un'ora, immobile in Zazen, fino a quando la
monaca accanto a me non si inchina in gassho per scusarsi, dovendosene
andare. Rispondo. Quando riassumo la postura non riesco più a star fermo,
sento dolori ovunque, le mani si fanno gelide. Controllandomi, scopro che
ho invertito la posizione delle mani, la destra sulla sinistra. Scusandomi,
riassumo la postura corretta e i dolori scompaiono, come il freddo. Più
tardi, dopo aver percorso trentaquattro metri in venti minuti di Kin Hin,
la meditazione fatta camminando lentissimamente, mi accorgo di essermi
addormentato, distratto. E alla fine del pranzo formale, senza nulla sapere
del cerimoniale né delle parole giapponesi pronunciate, sento che che
qualcosa non
va. Quando, al momento della partenza, ne parlo con una delle monache, lei
sorride. Era vero. Io, nella mia solitudine, avevo sentito cambiare
qualcosa in quella degli altri. Che cosa, ancora non lo so.